L'allenamento della velocità
Estratto da 'Il sistema di Charlie Francis' (Charlie Francis Training System)
L’idea vetusta e screditata (ma purtroppo dura a morire) era quella di effettuare lavori di forza prima dei lavori di corsa, di modo da convertire il guadagno di potenza in velocità. Ora, non volendo ricorrere ai manuali di fisiologia, salta all’occhio l’insostenibilità della tesi (dopo una seduta di pesi la forza stessa diminuisce, e non c’è bisogno di scienziati per saperlo, basta provarlo sulla propria pelle) ma più di tutto varrà il dato esperienziale. Sprintare, ma anche solo correre dopo una seduta più o meno intensa di potenziamento, è immediatamente avvertito (da chi l’ha provato, s’intende) come scorretto, innaturale. La forza è diminuita, la tecnica degrada, le sensazioni sono, con una semplice ma efficace parolina, “brutte”. Il contrario invece è perfettamente praticabile e per chi resta scettico il consiglio è di confrontarsi con l’esperienza pratica: si faccia eseguire ai propri atleti la routine prima lavori di sprint e corsa poi successivamente lavori di forza con i pesi in palestra e si guardino dapprima le sensazioni degli atleti e poi (un po’ più in là) i risultati del cronometro…
Alcune considerazioni riguardanti la conversione della forza in potenza:
L’allenamento del velocista richiede un volume relativamente intenso di allenamento sul sistema nervoso (es: lavori che incidono sul ciclo allungamento/accorciamento come la pliometria). Pertanto, un’esecuzione ripetuta di sprint alla massima velocità su distanze che vanno dai 10 ai 120 metri è più che sufficiente per convertire i guadagni nella forza massima in potenza esplosiva. Provare ad integrare questo processo con una fase di conversione tradizionale è superfluo.
Come applichi la fase di conversione del lavoro di forza?
Dubito del modo classico di attuare la fase di trasformazione, nel quale si riducono i carichi e si aumentano le ripetizioni e la velocità d’esecuzione. Io lascio che si continuino ad utilizzare carichi elevati e basse ripetizioni (8-6 ripetizioni). Per quello che posso intuire, l’obiettivo di diminuire i carichi ed aumentare la velocità d’esecuzione ed il numero di ripetizioni è quello di avvicinarsi alla specificità del gesto di gara. Ma è evidente che anche in questo modo la specificità è veramente bassa: un velocista muove gli arti inferiori a circa 80 Km/h, quindi più di 20 metri al secondo. La velocità media di uno squat è di 0,5 m/s. Anche raddoppiandola (che in ogni caso aumenta il rischio di infortuni) si arriva ad 1 m/s…
Perché non utilizi la tecnica di corsa in ampiezza e in frequenza?
In Italia, agli inizi degli anni ’80, Carlo Vittori elaborò addirittura delle formule e delle tabelle che, in base alla lunghezza degli arti inferiori, calcolavano il numero di passi ideale per correre i 100 metri. La conseguenza era l’inserimento di esercizi di varia natura effettuati con l’intento di modificare l’ampiezza e la frequenza di passo dello sprinter. Il contraltare di questa intuizione (tra l’altro notevole per l’epoca) è però la possibilità, concreta, di snaturare la naturale esecuzione del gesto tecnico del velocista. A riprova di ciò, dobbiamo considerare che campioni quali Wayde van Niekerk, Yohan Blake, Christian Coleman, Usain Bolt (solo per nominare i più noti) non sono mai stati allenati con questa tecnica. C’è da dire che questa tecnica di allenamento non viene utilizzata dalle scuole extraeuropee.